Chi siamo

INCOSE Italia è il nome del Capitolo italiano dell' "International Council on Systems Engineering" (http://www.incose.org/).
L’attenzione al “systems engineering” è andata rapidamente crescendo in Italia negli ultimi anni, sia nel settore privato che in quello pubblico.
L’industria dell’aerospazio e della difesa, che ha una lunga tradizione in Italia, è particolarmente interessata al “systems engineering”. La crescente complessità dei sistemi, la rapida evoluzione delle tecnologie e le sfide della net-centricità e dei “sistemi di sistemi” richiedono un approccio olistico e metodologicamente strutturato.
Anche industrie ed aziende fornitrici di servizi in ambito civile sentono la necessità di un approccio sistematico al progetto architetturale ed allo sviluppo di sistemi futuri.
Il Capitolo italiano è stato molto attivo negli ultimi quattro anni, organizzando seminari e corsi introduttivi su numerosi temi: la gestione dei requisiti, il “systems architecting”, gli “architectural frameworks”, il SysML, la sicurezza dei sistemi ed altri.
Inoltre, abbiamo stabilito buone relazioni con istituzioni accademiche, che hanno permesso l’organizzazione di corsi sul “systems engineering” nell’ambito dei programmi di Master post-universitari.

domenica 3 maggio 2009

Systems engineering e PMI

Da Andrea Franco:

Cari colleghi,
dopo qualche chiacchierata fatta separatamente con alcuni di voi durante le pause caffè dei passati seminari e qualche scambio di e-mail, ho ritenuto opportuno allargare e condividere la discussione sull’argomento del Systems Engineering (SE) nelle Piccole Medie Imprese (PMI) per stimolare la nostra community e raccogliere ulteriori contributi e opinioni.

Background e obiettivi
Come ho avuto occasione di dire in più di una circostanza, l’esperienza personale e professionale mi ha portato a constatare quanto poco sia conosciuto il ruolo del SE.
Quest’affermazione è derivata dai risultati di uno screening, continuo da più di un anno, delle inserzioni di recruitment di personale, (a dire il vero limitatamente all’area romana) dal quale si evidenzia un quadro di come, ad eccetto di grosse compagnie multinazionali, il nostro profilo professionale sia di fatto ignorato.
Considerando che il tessuto produttivo italiano, come anche altri Paesi ci riconoscono, è costituito in larga parte dal settore delle Piccole e Medie Imprese, si arriva alla conclusione che ci sono ampi spazi in Italia in cui l’applicazione del system engineering, nelle sue diverse forme di espressione, può trovare impiego.
I risultati derivanti da questa presa di coscienza della media imprenditoria dovrebbero auspicabilmente portare da un lato ad una crescita della competitività delle aziende e dall’altro (utopisticamente?) ad un aumento delle richieste di profili attinenti all’area del SE, incentivando quindi la crescita di nuovi spazi occupazionali.

Sommario dell’Analisi del contesto
In questa sezione vorrei condividere alcune rielaborazioni personali relative all’analisi del contesto che potrebbe incontrare un’eventuale azione rivolta alla promozione della figura del SE nelle PMI italiane.

Le piccole, le grandi, la crisi finanziaria
Qualche settimana fa, in un articolo del Sole24Ore, Romano Prodi osservava come, a differenza delle altre nazioni, il “Sistema(!) Italia” abbia dimostrato tutto sommato una discreta tenuta all’urto della crisi finanziaria, proprio grazie ad un apparato produttivo ancora fortemente trainato dal settore della PMI. La spiegazione è da ritrovarsi nel fatto che, mentre i grandi gruppi industriali condizionano e sono a loro volta condizionati pesantemente da manovre e speculazioni finanziarie per far quadrare conti economici e cash flow, le PMI basano i loro proventi sostanzialmente sulla profittabilità di quanto producono.
In pratica si concludeva come l’economia di un Paese che sia ancorata al settore manifatturiero (rappresentato dalle PMI) più che a quello dei servizi - o quanto meno in cui il peso del primo e del secondo siano ben miscelati – costituisca una garanzia di basi solide per sopravvivere a simili tempeste finanziarie.
Il motivo per cui le PMI sono oggi in sofferenza quindi è da imputarsi essenzialmente nella difficoltà di accesso al credito e non tanto per una carenza strutturale del modello di questo sistema produttivo.

Leggendo questo, rammentavo come in un seminario a cui partecipai fu asserito che oggigiorno l’obiettivo di un’azienda non è fare prodotti profittevoli ma soddisfare i propri azionisti: a ben riflettere, negli ultimi tempi le governance (ricompensate loro stesse in azioni dell’azienda) di alcuni gruppi industriali, caratterizzati da scatole cinesi di società controllanti e controllate o alchimie finanziarie, ci hanno abituato a decisioni che appaiono sempre più prese in funzione degli azionisti. Il destino della dirigenza è quindi legato a filo doppio all’andamento del titolo in Borsa dell’azienda che essa stessa dirige.
In una PMI invece il ruolo del “padrone” è identificabile senza ambiguità e così l’imprenditore, che vive del prodotto della propria impresa, espone se stesso (se non in molti casi tutta la famiglia) con le decisioni legate alla conduzione dell’azienda; decisioni che investono tutte le dimensioni dell’impresa dal ciclo di vita dei prodotti che essa produce alla sfera dei processi di supporto alla gestione aziendale. Il tutto in un contesto di mercato caratterizzato da continui e magmatici cambiamenti e da catene di relazioni causa/effetto di complessità crescenti che implicano nell’applicazione della leadership dell’imprenditore e del suo staff doti di lungimiranza e mix di conoscenze sia specifiche che ad ampio spettro.

Inserimento del SE nelle PMI: gestione della complessità a supporto del processo decisionale
La conclusione della sezione precedente sulla gestione di una PMI costituisce a mio avviso le due facce della medaglia. A supporto delle mie elucubrazioni ricorro a qualche altro articolo del Sole24Ore: uno del direttore dell’Associazione Italiana delle Aziende Familiari (AIdAF) e un’intervista al Presidente dell’Unione Industriali di Roma (UIR).
Il primo trattava il grado di riluttanza che ha una PMI a ricorrere a manager, da introdurre nelle funzioni direzionali, che siano esterni al “clan” proprietario dell’impresa. Pur con la consapevolezza che il contributo d’esperienza di una figura Middle/Senior Management cresciuta magari in una multinazionale (come alcuni SE esperti) soddisfi la necessità di far crescere l’azienda e la sua competitività, tuttavia i principali ostacoli sono ravvisabili in:
• la paura che il proprietario dell’impresa si veda esautorato e svuotato del potere decisionale che oggi detiene circa le sorti della sua azienda
• che la diversità di culture e di visioni dell’imprenditore (concretamente focalizzato sull’azienda) e del manager (che ha magari una visione più di ampio respiro se non altro perché abituato a ragionare su una scala con ordini di grandezza diversi) sfoci in relazioni contrastate
• il costo associato all’assunzione di professionalità di questo livello

Il secondo intervistato, commentando un’indagine sul grado d’innovazione delle PMI romane, sottolineava il loro carattere a conduzione familiare e come in alcuni casi si riscontrino ancora “carenze manageriali lungo il processo di innovazione” sostenendo inoltre quanto “sarebbe cieco da parte degli imprenditori tagliare ora risorse di innovazione e di professionalità elevate; piuttosto si razionalizzino i processi”. Infine invitava le PMI a superare il limitato perimetro che contraddistingue le loro attività, ricorrendo più convintamente ai distretti regionali, la cui missione è appunto di favorire l’azione sinergica di più aziende che condividono ambiti (ma anche esigenze) affini, secondo il vecchio adagio che “l’unione fa la forza”.

Conclusioni
Circa le remore espresse dal primo articolo, ricorro ad una metafora. Tra i membri dell’equipaggio delle barche a vela che gareggiano nelle regate c’è sia il tattico che lo skipper. Il primo scruta la superficie del mare alla ricerca delle raffiche e suggerisce, conseguentemente, la tattica di gara. Lo skipper è però colui che ha il timone nelle sue mani e la decisione finale su quale rotta seguire spetta a lui. Allo stesso modo il SE dovrebbe essere considerato come supporto al processo alle decisioni e alla strategia (ad esempio di prodotto o di processo) che resta comunque di responsabilità e appannaggio dell’imprenditore, il quale un certo grado di delega al SE suo collaboratore dovrà in parte accordare.

Per quanto sia condivisibile e auspicabile l’esortazione del presidente della UIR a considerare l’investimento non solo in tecnologie ma anche in risorse umane innovative come volano per ripartire, non si può tuttavia trascurare che la condizione affinché ciò avvenga è che qualunque imprenditore vorrebbe avere l’evidenza di un business case che giustifichi tale passo. Si dovrebbe quindi quantificare come il costo d’investimento nel formare, o persino assumere, un SE sia compensato da un aumento dell’efficienza, una riduzione dei costi, ottenuta ad esempio o con una revisione dei processi organizzativi o con una maggiore attenzione alla gestione dei rischi o con l’applicazione di metodologie più strutturate o una strategia per un prodotto di successo.
Per mitigare i costi di tale investimento, non saprei dire se e in quale forma i distretti tecnologici (ad oggi nella Regione Lazio ne sono attivi tre: per i beni e le attività culturali, per le bioscienze e per l’aerospazio e difesa) ed il supporto delle istituzioni ad essi preposte, potrebbero rendere lo sforzo di far crescere e valorizzare figure di SE all’interno delle PMI meno oneroso, grazie alla loro coalizzazione e alla condivisione di programmi comuni.

Andrea Franco

Nessun commento: